Ho sempre pensato che i social network siano uno strumento troppo nuovo per essere correttamente disciplinato dalla legislatura attuale. Lo dimostra l’ennesimo contenzios0 finito in tribunale a causa dei social network.
Nel caso specifico, un maresciallo della Guardia di Finanza aveva scritto una frase su Facebook nella quale parlava male di un suo collega, senza tuttavia nominarlo esplicitamente. Convinto di essere al sicuro da eventuali accuse, fu molto sorpreso dalla denuncia e dalla successiva condanna in primo grado a tre mesi di reclusione militare. Tuttavia, in appello la sentenza fu ribaltata, ma il collega offeso ritenne opportuno ricorrere in Cassazione.
Solo ieri fa la Corte si è espressa, concedendo un ulteriore processo di appello. Nella sentenza si legge che è sufficiente che il soggetto la cui reputazione è lesa sia individuabile da parte di un numero limitato di persone indipendentemente dalla indicazione nominativa.
La situazione sembra chiara, ma è molto equivoca: se non faccio nomi, ma faccio in modo che questa persona sia riconoscibile, allora sono perseguibile penalmente, ma cosa accade se la mia offesa viene poi condivisa e ripubblicata da tante persone? Siamo tutti complici? Cosa accade se io, al fine di offendere una persona, cito un aforisma di un personaggio famoso? Cosa accade se io non voglio offendere nessuno, ma invece voglio fare una critica generale nella quale qualcuno si riconosce? Come posso difendermi?
Come si può vedere, il vuoto normativo è ancora abbastanza ampio e con questa sentenza così imprecisa non si fa altro che complicare le cose. Che la causa sia una scarsa formazione da parte di chi esercita il potere giudiziario, secondo me, è indubbio.
Tu hai letto la sentenza? Come l’hai interpretata? Cosa, secondo te, è perseguibile penalmente e cosa non lo è? Lascio a te la parola nei commenti.